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    "Terra Battuta" di Elisa Pincherle

    "Terra Battuta" di Elisa Pincherle

    E’ solo una mattina di fine ottobre: tipica e calda.
    “Come si può, madre di Dio?” Tota parla alla sorella, Jessica, senza neanche guardarla.
    “Come si può, Santo Iddio: manca il cibo…”, e intanto sminuzza , adoperando un grosso coltello da cucina, minuscoli tocchi di cipolla in pezzetti ancora più microscopici, “…manca l’acqua. Manca il respiro: persino il respiro, Santa Immacolata Maria!” e il tagliere blocca l’ampia lama, attutendo in un tonfo sordo il colpo veloce e forte.
    Un occhio le lacrima: lo asciuga con il dorso della mano destra, stringendo l’innocuo pugnale dal manico conciato. Con l’altra stringe un dolore vigliacco ed improvviso, stropicciando gonna e grembiale: appena sotto al ventre, tesissimo.
    Il suo urlo attraversa la stanza e sbatte contro la porta semichiusa in legno, gonfia le stoffe dei tendoni a fiori, rimbalza nelle orecchie dei bambini e dei ragazzi, inseguendo il loro gioco nell’aia: nello spiazzo polveroso, alzando gambe troppo magre e pulviscolo rosso, calciato da piedi scalzi e lerci.
    “Jessica: è il momento, Santo Iddio!”
    La donna ingoia lo stupore che la rendeva immobile innanzi alla scena e, nel sentir quel nominare invano, si scuote immediatamente: si alza e, portando le mani a cono intorno alla bocca, simula un altoparlante, grezzo ed efficace: “Chitoo!”, urla gonfiando le vene del collo, “sta nascendo: per la Madonna!” invoca, emulando.
    Vestito di tessuti stropicciati dal sonno e seguito da quel gruppo fanciullo, infantile nuvola intorno ad un’unica palla, Chito arriva di corsa.
    Tota, piegata dai colpi nel ventre, cade inginocchiata. Nel suo campo visivo rimane il piccolo Rodrigo che, con metodo, continua a dribblare tra gambe di sedie e tavolo.
    La donna l’osserva mentre simula un cross: quando gli appare, come una visione ultraterrena, mentre alza le braccia al cielo, nell’esultanza di un fantomatico quanto immaginario goal, stringe gli occhi forti perché una contrazione, lunga lunga e dolorosa, l’avvisa che sta per partorire.
    Il bambino nascerà, invece, dodici ore più tardi: “Tu mi farai dannare”, la prima frase che la madre gli regalerà, baciandolo teneramente sulle labbra.
    “Tu mi farai dannare!”, gli dice ancora, urlandoglielo dalla finestra dello stesso cucinotto umido e odoroso: le mani sempre intente a sminuzzar verdure.
    Ma il bimbo non l’ascolta: scivola sul selciato grezzo e gretto e sporco, con quella sfera che pare attaccata ai piedi.
    Schiva Pedro che, faticando contro ossa vecchie, spinge la sua bicicletta, trainando un carretto carico di stoffe e cartoni.
    Rimbalza contro Veronica che, magra e con le ossa sporgenti, stringe il sacchetto della spesa, riempito solo di patate.
    Subito riprende a correre, muovendo il volto sotto quei riccioli, tutti annodati come i vagabondi, e alzando le mani, in segno di arresa: non volevo starò più attento.
    E Veronica scuote la testa: “Povera Maria: la farà dannare!”
    Allora giù per lo stradone, a mangiar terra battuta e calore, fino alla linea del treno: con quel rumore di rimbalzo ad annunciarlo.
    E Hugo e Paolo a sbraitare –passa, passa, passa- ma quel pallone precede solo lui e lui soltanto.

    Il camioncino di latta arrugginita arriva al passo sostenuto permesso dalla discesa, proprio mentre il dribblaggio lo estranea dal mondo: gli piomba sul fianco, facendolo sussultare come un fantoccio, sbattendolo due volte: prima a terra e poi in aria.
    “Tota!” le arriva tra le imposte, “Tuo figlio: alle rotaie!”
    E Tota corre e s’inciampa e corre ancora.
    Quando lo raggiunge è un bambino più piccolo dei suoi sette anni, con un vistoso taglio sul ginocchio destro. Moccio, lacrime, terra e sangue a sporcargli la bocca e il mento.
    Due occhi che chiedono di non esser sgridato per l’imprudenza.
    “Tu mi farai dannare!”sorride Maria, chiudendoselo tra le braccia: lui e il gioco che ancora imprigiona stretto.
    Nel sole che sta tramontando il bambino chiede alla madre un bacio, promettendo di diventare un grande calciatore. Di diventare qualcuno.
    “Tu sei già il mio ragazzo” è la frase che lo accarezza.
    Il pallone ancora imprigionato stretto: le gambe penzoloni, verso casa, con la ferita sul ginocchio pulsante e calda sotto un raggio tiepido di sole argentino.

    Era il 1967: Diego Armando Maradona , con il volto abbandonato sulla spalla della madre, si addormentava sognando.

    Elisa Pincherle

    Mi chiamo elisa e mi occupo di parole.
    qualche volta le parole si occupano di me.
    ma questo: spesso è irrilevante.
    più di frequente imbarazzante.