• Moderatore

    Se Auschwitz è nulla. Contro il negazionismo - Donatella Di Cesare

    Parlare di negazionismo su un forum quale il “nostro GT” potrebbe destare perplessità o persino apparire inopportuno, soprattutto in ragione dell’argomento delicato benché attualissimo, e il rischio così vivo di scivolare in polemiche causate da ambiguità, incomprensioni, pregiudizi.

    Si può commentare un libro Contro il negazionismo (Se Auschwitz è nulla, Donatella Di Cesare, Il Melangolo, 2012) chiamandosi preventivamente fuori dalla bolgia delle argomentazioni politiche e del fervore religioso, focalizzando l’attenzione sulla capacità che da sempre ha la lingua di deviare le coscienze degli uomini, il sentire comune e persino il corso della storia.

    Questo viaggio breve e inquietante nella lingua del Terzo Reich parte dai segni, sigle che si sostituiscono a parole impoverendole; abbreviazioni che celano, mistificano, deumanizzano:

    SA, da Sturmabteilung, il battaglione d’assalto noto come “camice brune”, dal colore delle divise. Nato come *Sportabteilung *(squadra sportiva), fu sciolto dopo il fallito colpo di Stato intentato da Hitler nel 1923, poi rifondato e ribattezzato nel 1925 con il vecchio nome SA.

    SS, da Schutzstaffeln, la squadra di protezione ovvero le guardie armate di Hitler, che Himmler portò da 280 a 52 mila unità, poi ricevettero il controllo della Gestapo e arrivarono a 250 mila membri.

    E ancora NSDAP, KZ, SB e soprattutto NN, tra tutte le sigle la peggiore poiché divenne prefisso di morte e simulazione, dando origine a parole nelle quali già allora era inscritta la ferma volontà di annientamento degli ebrei e di cancellazione del misfatto. A ben vedere il negazionismo è nato allora.

    Curiosamente NN, che sta per Nucht und Nebel (“notte e nebbia”), ha origini per così dire nobili: sono le parole che in una scena de L’Oro del Reno Richard Wagner fa pronunciare ad Alberich, re dei Nibelunghi, il quale indossa un elmo magico e scompare al suono di “Nacht und Nebel, niemand gleich” (“Notte e nebbia, non c’è più nessuno”).

    NN diede il nome a un decreto che disponeva che tutte le persone ritenute pericolose per il Reich dovessero essere prelevate nella notte e fatte sparire, come disse lo stesso Hitler “nella notte e nella nebbia”. Era la cosiddetta NN-Aktion, l’ “operazione notte e nebbia” con cui venivano prelevati oppositori e nemici, ovvero gli NN-Haftlinge (prigionieri che nei campi di concentramento vestivano uniformi con la sigla N.N.), e deportati nei campi attraverso il NN-Transport (“trasporto notte e nebbia”).

    Nel breve saggio l’Autrice fa notare come il tedesco del Terzo Reich fu violentato fino ad assottigliarsi e uniformarsi alla logica del totalitarismo, con parole coniate per essere al servizio della propaganda e dell’organizzazione tecnica, quasi sempre con lo scopo di celare il crimine agli occhi delle vittime e dell’opinione pubblica.

    Sonder- (speciale, straordinario) è forse il più tristemente famoso dei prefissi: vi nacquero parole indecifrabili come *Sonderweg *(“sentiero d’eccezione”, inteso come la missione intrapresa dalla Germania a partire dalla proclamazione del Terzo Regno nel 1933), *Sonderaktion *(l’operazione che aveva come scopo quello “di nascondere le tracce degli omicidi di massa attuati dalle forze tedesche nei campi di sterminio tramite l’esumazione e la successiva cremazione dei corpi”, da Wikipedia) e *Sonderbehandlung *(il “trattamento speciale” riservato al “popolo speciale”).

    Non solo strumento di propaganda, la lingua dei nazisti imperversò nei lager con il duplice fine di confondere i prigionieri perché non si ribellassero e di privarli della dignità. Dalle *Rampen *su cui avvenivano le selezioni (alcuni deportati nei campi di sterminio erano diretti da subito alle camere a gas) si gridavano ordini rabbiosi allo scopo di tramutare gli uomini in *Untermenschen *(esseri “sub-umani”), si parlava con disprezzo di *Menschenmaterial *(“materiale umano”), di *Schritt *(“robaccia”) e di uomini come *Stücke *(“pezzi”).

    Tutto ciò si accompagnò a un profluvio di eufemismi, a partire dal nome che fu dato al progetto hitleriano: *Endlösung *(“soluzione finale”). Nel Wannsee Protokoll del 1942 si legge: “con un accompagnamento adeguato, nell’ambito della soluzione finale, gli ebrei devono giungere a est per essere sottoposti in modo conveniente al lavoro coatto. In grandi colonne di lavoro, separati per sesso, gli ebrei abili al lavoro verranno condotti in questi territori costruendo strade, laddove ovviamente una gran parte cadrà per naturale riduzione. Il *residuo *che dovesse eventualmente rimanere alla fine, dato che sarà senza dubbio la parte di prigionieri più resistente, dovrà essere trattato in modo rispondente perché, rappresentando una selezione naturale qualora venisse liberato, va ritenuto la cellula germinale di una nuova ricostruzione ebraica”.

    All’arrivo nei campi, alle persone che scendevano dai vagoni veniva riservata la Empfangszeremonie, letteralmente “cerimonia d’accoglienza”, che consisteva in ingiurie e percosse; nel *Duschkammer *(“locale per la doccia”), che altro non era che la camera a gas, aveva luogo la *Entwesung *(“disinfestazione”).

    Nel saggio della prof.ssa Di Cesare le osservazioni sulla lingua sono disseminate un po’ ovunque, ma io ho raccolto principalmente quelle presenti nel quarto capitolo dall’inequivocabile titolo “Notte e nebbia”. È una lettura appassionante, che ci costringe a fare i conti con la storia del XX secolo, con ciò che siamo stati e potremmo ancora essere, con la voglia di archiviare in fretta un incidente e autoassolverci, con il pericolo di cedere alle lusinghe dei pregiudizi, o peggio, a quelle della superficialità che vorrebbe derubricare il negazionismo a opinione: per gridare allo scandalo e perpetrare l’identica menzogna di Hitler, per cancellare i crimini come gli ebrei del *Sonderkommando *(“comando speciale”, altra parola con l’equivoco prefisso Sonder-: erano i prigionieri scelti per stipare gli uomini nelle camere a gas, alzare la botola per gettarvi lo Zyklon B, estrarre i corpi per portarli ai forni) erano costretti a fare quando passavano la calce sui muri delle “docce” dopo la “disinfestazione”.

    Al di là della tragedia immane che accompagna qualunque testo e racconto sull’Olocausto e, dunque, anche questo libro, una riflessione sulla lingua va fatta e concerne la facilità con la quale le parole assumono un significato del tutto estraneo a quello originario, provocando un vuoto semantico e lasciando intere praterie libere alle scorribande propagandistiche degli impostori.

    Siamo talmente abituati a tutto questo che neanche vi prestiamo più attenzione: di un politico che non vuole lasciare la poltrona si dice che “ha la ferma volontà di continuare ad assumersi le proprie responsabilità”; l’espediente per consegnare la guida del paese a una minoranza viene chiamato “premio di maggioranza”. La lista di esempi sarebbe lunga.

    Tanto per chiudere sconfinando finalmente nella letteratura, nell’Oceania di Orwell (1984, Nineteen Eighty-Four) la *neolingua *prevede pochi termini con un significato preciso ed elementare affinché non si ceda alla tentazione di sviluppare il pensiero critico dell’individuo. Un esempio di questo impoverimento della lingua e della sua riduzione a strumento funzionale al regime, a ingranaggio del potere, è forse il saluto nazista, quel Heil Hitler! con braccio destro a 45° e tacchi battenti che le folle accompagnavano all’urlo ritmico Sieg Heil, un tributo al culto della personalità (ahimè, un evergreen) misto al delirio meccanico di slogan da parata militare.

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  • Moderatore

    Ciao Francesco,
    difficile confrontarsi con temi forti come questo, come il negazionismo in genere. Mi piace l'attenzione che hai posto sull'uso delle parole, le parole scelte con cura, quelle parole sono i legacci di ogni regime e spesso lo nascondono per molto, molto tempo.*

    Maurizio*


  • Moderatore

    Ciao Maurizio.
    Verissimo, le parole e i simboli sono importantissimi per formare il pensiero e il consenso, nel bene e nel male; e ciò vale, con le dovute differenze, anche nel marketing e nella pubblicità.
    Per fortuna la lingua è anche una spada, un argine a difesa della dignità dell'individuo.
    Il mio ottimismo mi porta a credere che la parola stessa contribuisca a svelare ciò che la parola ha nascosto, grazie ad esempio alla libertà di stampa.

    Mi discosto un momento dal tema del negazionismo per parlare solo di lingua: un esempio diverso di uso della lingua in chiave simbolica, "positivo" per l'idea e i valori e non per cause politiche (che non mi interessano), è quel "I have a dream" che conosciamo tutti: sul piano della comunicazione e della propaganda è da 10 e lode, una *genialata *assoluta del marketing se posso permettermi senza essere blasfemo.

    Francesco


  • Moderatore

    ... per quanto proprio quel bellissimo "I have a dream" scelto con cura dal "marketing politico" è quello che dovrebbe spaventare. 🙂


  • Consiglio Direttivo

    Un tema così delicato esige proprio per questo di essere trattato con il massimo rigore scientifico possibile, sia in termini logici che più genericamente glottologici.

    La recensione mi ha ricordato un folgorante saggio di David Foster Wallace (nella straordinaria silloge Considera l'aragosta, Einaudi, 2006) intitolato Autorità e uso della lingua (sottotitolo: Ovvero, "Politica e Lingua Inglese" è ridondante), in cui si parla dell'inestricabile trama di legami che uniscono il nostro parlare e il nostro agire pubblico — dunque politico.

    Conosco pochi autori capaci di leggere la realtà in tutte le sue complesse sfumature al pari di Wallace. E sebbene in quel particolare saggio non si affrontasse direttamente il problema del negazionismo, ricordo distintamente come la prosa dell'autore rilevasse tutti gli aspetti salienti del pervertimento della lingua per scopi miserabili o anche soltanto ingenuamente idioti.

    Quanto al negazionismo, è una pratica deprecabile di cui certa squallida retorica post-nazista e post-fascista ha fatto ampio uso in questi decenni, tentando con scarso successo (ma con pericolosa ostinazione) di inquinare un dibattito ormai archiviato, e di "buttare in caciara" un argomento serio, meritevole di più consone proposte ed esposizioni.

    Ancora peggio, una tendenza negazionistica di assai più ampio respiro si è ormai acclimata quale solido pilastro della retorica politica meno alta e preparata, usato a mo' di scure portatrice di caos in dibattiti nei quali invece l'aderenza ai fatti e la distaccata disamina delle responsabilità — con l'assunzione delle medesime e delle risultanti conseguenze — sarebbero l'unica speranza di garantire maggiore chiarezza, pulizia e coerenza di espressione e di pensiero.

    Una tendenza, con mia somma disperazione, che non sembra trovare argini nell'immediato futuro, e sulle cui conseguenze nefaste posso fare solo (allarmanti) previsioni.


  • Moderatore

    Ciao Leonov,
    come sempre impeccabile, è un piacere leggerti.

    David Foster Wallace mi manca: grazie della dritta! 😉

    Nel commento ho provato a limitarmi alla lingua tacendo della questione della tecnica. Spero di non finire off-topic.
    Parto da un esempio. Alcuni processi contemporanei legati a fatti di cronaca nera assumono una valenza mediatica. Sempre più spesso le difese sfruttano la confusione generata da errori degli inquirenti (soprattutto di chi svolge le indagini a livello scientifico), errori talvolta dovuti a piste false battute a seguito di precedenti dichiarazioni di testi e imputati, poi smentite o corrette: l'accusa è così costretta a cambiare tesi e in qualche caso è addirittura chiamata a dimostrare il contrario di quanto sostenuto sino a quel momento con l'aiuto dei periti.
    Queste situazioni sono sempre più frequenti, soprattutto in presenza di lunghi processi fatti a suon di perizie tecniche. Sembrerebbe un paradosso, ma scienza e tecnica, che dovrebbero svelare la realtà, prestano il fianco a difese che altrimenti sarebbero insostenibili, e ciò proprio a causa di piccole contraddizioni.
    Non è colpa della scienza e della tecnica, questo è ovvio, ma di un'applicazione non corretta delle procedure o di errori umani, che però probabilmente allo stato sono la norma.

    Qualcosa di analogo è accaduto con i negazionisti, che hanno provato a mettere in dubbio l'esistenza delle camere a gas (sarebbero state docce per la disinfestazione; e questo semmai, alla luce di quanto accennato sugli eufemismi e la lingua, deve suggerire proprio che si è pensato all'occultamento del crimine prima ancora di perpetrarlo) cercando contraddizioni ovunque, quasi sempre portando argomentazioni tecniche "errate" (e alcuni "falsi" evidentissimi), ma che hanno fatto e continuano a fare proseliti.

    Si chiede la conta esatta dei morti oppure - e qui ritorniamo alla lingua e alla retorica - si fanno confronti con altri genocidi chiedendo esplicitamente in cosa risieda la singolarità dell'Olocausto. L'Autrice risponde - e nel piccolo della mia ignoranza da uomo qualunque sono d'accordo - che tutti gli altri genocidi sono la conseguenza e non la causa, che cioè si ammazza per impadronirsi della terra, delle risorse naturali o di un qualunque altro bottino, dunque per il potere, ma mai - mai! - l'eliminazione è stato il fine ultimo invece della causa. Dietro la Shoah non c'è la corsa ai diamanti o una rotta commerciale, ma l'eliminazione per l'eliminazione.


  • Moderatore

    Riletto dopo 3 mesi, ho trovato un refuso: "camicie brune".